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PAOLO GIOLI. UN CINEMA DELL'IMPRONTA

22/01/2010

<<Io non riesco a lasciar fuori niente; il meccanismo, i diversi elementi, il supporto e via dicendo: tutto fa parte della storia e tutto mi interessa. Se poi, esplorando l’immagine, scopro un elemento che mi colpisce, un dettaglio, una mano, una finestra o qualcos’altro, allora decido di fermarmi e vedere che succede>>.

Indomito esploratore della “formidabile capacità che la materia fotosensibile ha nel manomettere e immaginare, quasi sempre drammaticamente, ogni cosa tocchi”, lottatore per immagini, legato alla pellicola e refrattario all’uso di tecniche digitali, Paolo Gioli è l’autarchico artista veneto al quale la Kiwido di Federico Carra, in collaborazione con il Centro Sperimentale, ha dedicato recentemente un’accurata pubblicazione monografica in cui, insieme ai contribuiti di numerosi studiosi (D.Bordwell, D.PaÏni, B.Di Marino e altri), vengono presentati in dvd sei suoi lavori inediti.

Fotografo, pittore e film-maker (per lui la definizione è da prendere alla lettera, in quanto vero manipolatore e lavoratore di film), Gioli ha iniziato a fine anni ‘60 un percorso di ricerca che lo ha portato alle origini del mezzo cinematografico, esplorato in tutte le sue componenti materiali (il supporto, l’emulsione, il formato della pellicola) e adoperato in una costante interrogazione sui processi generativi delle immagini.

Mantenendo nel tempo un medesimo atteggiamento nei confronti del mezzo (compra la pellicola, riprende e sviluppa da solo), il suo cinema è un’esperienza che, passando dall’astratto (Tracce di tracce, 1969) al figurativo, resta prettamente visiva, nella prevalente rinuncia ad un contrappunto o ad un accompagnamento sonoro, e sposando la convinzione che “il silenzio” possa offrire maggiori possibilità, soprattutto nella ricerca di una più vasta consapevolezza riguardo alle nostre capacità di “saper vedere”.

 Privilegiando la tecnica del foro stenopeico, che rimanda agli albori del cinema, un tempo in cui gli standard tecnici non erano fissati tassativamente, e riconquistando in tal modo una maggiore manualità nell’approccio al materiale così come una maggior corporeità del lavoro stesso, Gioli è artefice di un cinema fatto letteralmente con le mani, “a mano”, lasciando impronte tattili sulla superficie di un materiale-corpo già volutamente violentato, ricco di graffi, strappi e altre abrasioni, tali da interferire con l’immagine impressionata e al contempo in grado di evidenziare ancora una volta le tracce del tempo e della storia, la vulnerabilità, la vita propria della pellicola in tutta la sua fisicità, non lasciata al riparo dai pericoli, ma esposta ai rischi del consumarsi a contatto con la vita.

 Indagando sulle possibilità scartate, andando a spulciare, con l’attitudine del rigattiere, tra i resti e gli oggetti anonimi e ritenuti inutili – è il found footage il suo materiale di lavoro – Gioli non interviene immediatamente sul corso “naturale” delle cose, ma aspetta che queste si dissolvano, vadano in consunzione. Non coglie le cose al volo, ma medita a lungo, facendole “complicare”, ritornandoci sopra con pause lunghissime, procedendo per stratificazione e sedimentazione, non escludendo niente per principio, filmando anche “il più polveroso degli angoli” e avendo con il passato il rapporto di chi prova a “”riportare alla luce frammenti di ciò che avrebbe potuto essere”.

 E poi, una volta compiuto un buon raccolto (qui in modo simile al procedimento costruttivo di Godard), sviluppa le correlazioni, concentrando e condensando una miriade di segni su una superficie filmica spesso esigua, pochi metri a disposizione in cui tra sovrapposizioni, sdoppiamenti dell’immagine, sgranature, sfocature, trasformazioni e iterazioni, frazionamenti del quadro, inversioni negativo-positivo, l’immagine viene dissacrata, nell’ostentazione dei fori dentellati della pellicola così come dell’interlinea tra fotogrammi, ciò sta dietro le quinte della visione e che ora permette uno smascheramento al grado zero del dispositivo. L’immagine si defila per lasciar spazio a ciò che effettivamente la rende possibile.

 Lontano dalla rappresentazione quanto dalla narrazione, il cinema di Paolo Gioli sembra svilupparsi, citando Giacomo Daniele Fragapane (uno degli altri studiosi presenti nel libro), come un processo di “esplorazione” di un’idea, di volta in volta declinabile attraverso un arte orgogliosamente priva di disciplina, di confini e di gerarchie, a cavallo tra ambiti diversi, con la fotografia utilizzata come matrice filmica e viceversa.

 Fuori quadro e senza centro, abolendo la segregazione del frame in uno spazio standardizzato (il rettangolo del 4:3), servendosi di corpi umani in rotta di collisione, decostruiti, sbriciolati (tra gli altri, Anonimatografo, 1972), in una sottrazione vivificante di elementi che quasi azzera le mediazioni tra occhio e campo del “reale”, l’occhio puro di Gioli, spoglio d’orpelli – liberata la pellicola dalle lenti, dall’obiettivo, dal negativo, dall’otturatore e dunque dalla struttura stessa del fotogramma – genera un cinema che mantiene viva la possibilità del non intrattenimento, ma semmai del “trattenimento” dello spettatore all’interno di una dialettica in cui lo sforzarsi a comprendere o solo a vedere, il mettersi alla prova e il re-agire sono una forma di resistenza al “già tutto dato” dei prodotti mainstream.

Sollevare, alimentare e allevare problemi in esercizi mentali senza soluzioni, in cui le immagini, dotate di folle energia, bruciano d’intensità non misurabile, e rapidissime corrono verso la rianimazione o il loro ripetuto disfacimento.

 Salvatore Insana